PSICODIAGNOSTICA. COSA, COME, PERCHÉ
Con il termine psicodiagnostica (introdotto da Hermann Rorschach nel 1932, in relazione alla presentazione della sua tecnica d’indagine, basata sulla presentazione di macchie-stimolo) si definisce l’area della psicologia che, utilizzando un insieme di metodi specifici, si occupa della valutazione di caratteristiche/funzioni psicologiche (diagnosi psicologica), oppure dell’individuazione di disturbi psichiatrici (diagnosi psicopatologica).
L’oggetto dell’indagine psicodiagnostica (“cosa”) può quindi riferirsi allo spettro della normalità oppure della patologia. Nel primo caso, maggiormente frequente nei contesti di orientamento e selezione professionale, la descrizione della caratteristica in esame si fonda sugli assunti della teoria di riferimento; nel secondo, usuale in ambito clinico e giuridico, la definizione del concetto e delle forme di malattia mentale è estratta dai manuali nosografici internazionali (generalmente, DSM-5 oppure ICD-10).
La diagnosi psicopatologica non può esaurirsi con la semplice categorizzazione sintomatologica secondo le regole codificate dagli attuali sistemi diagnostici, ma deve anche includere l’individuazione dei meccanismi eziopatogenetici sottostanti lo sviluppo della psicopatologia e un’analisi del senso dell’esperienza vissuta dal singolo soggetto (il suo essere-nel-mondo, che si sostanzia, oltre che nella modalità specifica di vivere spazio e tempo, nei significati associati al disturbo; modello della tripla clessidra: diagnosi nosografica, fenomenologica e psicodinamica; Rossi Monti & Stanghellini, 2009).
La raccolta delle informazioni relative alla funzione, caratteristica o disturbo da valutare (“come”) può avvenire secondo modalità differenti, caratterizzate da diversi livelli di validità e attendibilità. I metodi psicodiagnostici più frequentemente utilizzati sono rappresentati da test, questionari, inventari, interviste, scale, diari, osservazione e colloquio clinico; meno usuali le misurazioni dei parametri fisiologici, generalmente usate come indicatori indiretti degli stati ansiosi. Tipicamente, l’indagine psicodiagnostica prevede la selezione e l’applicazione di almeno due metodi (tipicamente, test e colloquio clinico) e, all’interno di queste aree, di diversi tipi di strumenti (ad esempio, un test quantitativo e un test proiettivo). Tale prassi è finalizzata a estrarre informazioni indipendenti in numero sufficiente a consentire l’elaborazione d’ipotesi psicodiagnostiche.
Le informazioni, raccolte e debitamente organizzate, possono essere utilizzate con scopi differenti. La chiara individuazione del fine specifico dell’iter diagnostico (“perché”) è determinante sia nell’indirizzare la scelta dell’oggetto della valutazione (il cosa), che la selezione delle metodologie più appropriate da utilizzare per la raccolta delle informazioni (il come), oltre a guidare lo stile di stesura della relazione o l’impostazione della restituzione al paziente. E’ infatti profondamente diverso dover comunicare i risultati di una valutazione dell’impulsività a un giudice, nel contesto di un’analisi delle capacità genitoriali o dell’imputabilità, o all’esaminando stesso, in vista dell’implementazione di una psicoterapia mirata. Nel primo caso sceglieremo strumenti chiaramente validati in ambito giuridico e il nostro lavoro si concluderà con una la stesura di una perizia, nel secondo godremo di una maggiore libertà nella selezione delle metodologie (privilegiando magari il colloquio) e effettueremo una restituzione che tenga conto delle finalità terapeutiche.
I principali scopi di una valutazione psicodiagnostica sono dunque così sintetizzabili:
- comunicare informazioni specialistiche tra professionisti;
- comunicare con i pazienti (ad esempio, motivare e orientare alla psicoterapia; informare su decorso e prognosi).
Il processo psicodiagnostico, quando non espressamente finalizzato al rilascio di una certificazione medica o giuridica, generalmente confluisce nell’avvio di un percorso di sostegno psicologico o di una psicoterapia. La valutazione può avere di per sé valore terapeutico: l’iter valutativo può offrire al soggetto la possibilità di mettere a fuoco alcune caratteristiche personali e di utilizzare la maggiore consapevolezza acquisita per migliorare il proprio funzionamento.
IL CICLO PSICODIAGNOSTICO DESCRITTIVO-NOSOGRAFICO
Pensiamo a un paziente che arrivi in consultazione presso il nostro studio privato lamentando attacchi di panico e umore depresso.
Il processo psicodiagnostico è già iniziato nel momento in cui abbiamo raccolto queste informazioni, organizzandole mentalmente in aree cliniche. In questa prima fase, i metodi utilizzati per la raccolta dei dati sono prevalentemente due: il colloquio clinico e l’osservazione. I dati ricavati da questa seconda modalità potrebbero rafforzare o mettere in discussione le informazioni ottenute verbalmente; ad esempio potremmo notare che, al di là di quanto dichiarato, il paziente sembra manifestare un atteggiamento supponente, piuttosto che insicuro o dimesso.
Il passo successivo consiste nell’estrazione degli elementi clinicamente significativi dall’insieme delle informazioni raccolte; tale fase inizia, implicitamente, già nel corso del colloquio, orientandone le domande e la modalità di conduzione. Gli attacchi di panico sono completi o siamo piuttosto di fronte a fenomeni di ansia marcata? In quali specifiche circostanze si manifestano? La flessione dell’umore configura un quadro clinico depressivo? Quali aree di funzionamento subiscono l’interferenza della sintomatologia espressa? E’ possibile individuare un momento specifico di esordio dei sintomi? L’atteggiamento supponente evidente al colloquio si accompagna ad altri aspetti narcisistici?
Il terzo step del processo psicodiagnostico è rappresentato dall’organizzazione delle informazioni in aree di funzionamento specifiche, allo scopo di individuare i quadri clinici compatibili con quanto osservato, cioè le prime ipotesi diagnostiche e i relativi quesiti di diagnosi differenziale. Disturbo di panico? Agorafobia? Depressione maggiore? Disturbo narcisistico di personalità? Altre psicopatologie, non immediatamente evidenti?
L’organizzazione in categorie psicopatologiche distinte consente di verificare quali criteri diagnostici risultano soddisfatti e d’individuare le informazioni da reperire per verificare la presenza o l’assenza dei criteri che non è stato possibile valutare, al fine di accertare la sussistenza di una o più diagnosi specifiche (quarta fase).
L’identificazione dei dati non ancora disponibili (se presente) segna il ritorno alla prima fase del ciclo psicodiagnostico, che ora si riavvia, partendo dalla selezione dei metodi più opportuni di raccolta delle informazioni mancanti (che, al secondo incontro, potrebbero essere rappresentati dai test e/o dalla compilazione di diari relativi alle situazioni critiche) e proseguendo con l’individuazione delle informazioni clinicamente significative (ad esempio, attraverso l’elaborazione dei test). Si procede (terzo passaggio) con la formulazione delle ipotesi psicodiagnostiche che, a seguito dell’approfondimento operato nella fase precedente, potrebbero virare verso prospettive inizialmente scotomizzate (immaginiamo, ad esempio, che i test abbiano evidenziato un problema di dipendenza da alcol. I sintomi ansioso-depressivi potrebbero essere determinati da questa condizione clinica: si configurerebbe la possibilità di disturbo d’ansia indotto da sostanze). La quarta fase del processo consiste nell’individuazione delle informazioni psicodiagnostiche eventualmente insufficienti, che prelude un nuovo avvio del ciclo.
I tre step teorici che caratterizzano il processo psicodiagnostico (raccolta-organizzazione-interpretazione) vengono ripetuti fino all’elaborazione dell’ipotesi diagnostica principale. Ogni ripetizione definisce un ciclo, e ogni ciclo rappresenta un approfondimento mirato dei dati elaborati nella sequenza precedente, consentendo di scartare alcune ipotesi diagnostiche e approfondirne altre.